San Domenico Savio, adolescente
Domenico Savio nasce nella borgata di San Giovanni, frazione di Riva presso Chieri (Torino), il 2 aprile 1842, da Carlo e Brigida Gaiato. È il secondo di 10 fratelli. Il padre viene da Ranello, frazione di Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo don Bosco) ed esercita la professione di fabbro; la madre è originaria di Cerreto d’Asti e fa la sarta. Domenico è battezzato il giorno stesso della nascita nella chiesa parrocchiale di Riva presso Chieri, come risulta dall’atto di Battesimo firmato dal parroco don Vincenzo Burzio. Nel novembre del 1843 la famiglia Savio si trasferisce a Morialdo, frazione di Castelnuovo d’Asti, a un chilometro circa dai Becchi, dove si trova la casa di don Bosco. Qui Domenico vive una fanciullezza serena, ricca di affetto e docile agli insegnamenti religiosi che gli vengono dai genitori, profondamente cristiani. Tappa fondamentale del suo straordinario percorso di santità è la Prima Comunione, alla quale è ammesso eccezionalmente all’età di soli 7 anni. Di quell’evento sono noti i “Propositi”: “1° Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore mi dà licenza. 2° Voglio santificare i giorni festivi. 3° I miei amici saranno Gesù e Maria. 4° La morte ma non peccati”. Questi propositi, che Domenico rinnoverà ogni giorno di vita e che segneranno l’esistenza di tanti altri ragazzi santi, esprimono già un grande livello di santità, un lavoro della Grazia che don Bosco stesso riconoscerà, apprezzerà e orienterà verso alte vette.
Domenico cresce e vuole imparare. Va a scuola a costo di molta fatica: 15 chilometri circa, ogni giorno, solo, per strade insicure: “Caro mio, non temi di camminar tutto solo per queste strade?”, gli chiede un compagno. “Io non sono solo, ho l’angelo custode che mi accompagna in tutti i passi”. I compagni lo chiamano a tuffarsi nelle onde di un torrente. Lui capisce che la cosa non è buona e volta loro le spalle e se ne va per la sua strada. Ha solo dieci anni, ma ha la stoffa del capo. Una mattina d’inverno, a scuola, mentre si attende il maestro, i compagni riempiono la stufa di sassi e di neve. Al maestro, irato, i compagni dicono: “È stato Domenico!”. Lui non si discolpa, non protesta e il maestro lo castiga severamente, mentre gli altri sghignazzano. Ma all’indomani la verità si viene a sapere. “Perché – gli domanda il maestro – non mi hai subito detto che tu eri innocente?”. Domenico risponde: “Perché quel tale essendo già colpevole di altri falli sarebbe forse stato cacciato di scuola, dal canto mio speravo di essere perdonato essendo la prima mancanza di cui ero accusato nella scuola; d’altronde pensavo anche al nostro Divin Salvatore, il quale fu ingiustamente calunniato”. Nel febbraio del 1853 la famiglia Savio, per motivi di lavoro, va ad abitare a Mondonio, a 5 km circa da Morialdo.
Il prete insegnante di Mondonio, don Cugliero, era stato compagno di seminario di don Bosco. Incontrandolo un giorno gli parlò di Domenico come di “un suo allievo per ingegno e per pietà degno di particolare riguardo. Qui in sua casa – egli diceva – può aver giovani uguali, ma difficilmente avrà chi lo superi in talento e virtù. Ne faccia la prova e troverà un San Luigi”. Il 2 ottobre 1854, in occasione della festa della Madonna del Rosario, Domenico con il papà incontra don Bosco ai Becchi: è la tappa decisiva per il suo cammino verso la santità. Domenico chiede a don Bosco di essere ammesso all’oratorio di Torino, perché desidera ardentemente studiare per diventare sacerdote. Don Bosco ne rimane sbalordito: “Conobbi in lui un animo tutto secondo lo spirito del Signore, e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la Grazia divina aveva già operato in quel tenero cuore”. E gli disse: “Eh! Mi pare che ci sia buona stoffa”. Franco e deciso, utilizzando come metafora il lavoro della madre, Domenico rispose: “Dunque io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell’abito pel Signore”.
Domenico arrivò all’oratorio il 29 ottobre del 1854, al termine della micidiale pestilenza di colera che aveva decimato la città di Torino. Divenne subito amico di Michele Rua, Giovanni Cagliero, Giovanni Bonetti e Giuseppe Bongiovanni con cui si accompagnava recandosi a scuola in città. Con ogni probabilità non seppe niente della “Società salesiana” di cui don Bosco aveva cominciato a parlare ad alcuni dei suoi giovani nel gennaio di quell’anno. L’8 dicembre del 1854, mentre a Roma il Papa Pio IX dichiarava “verità di fede” l’Immacolata Concezione di Maria Santissima, Domenico si inginocchia davanti all’altare della Madre di Dio nella chiesa di San Francesco di Sales, consacrandosi solennemente a lei: “Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria siate voi sempre gli amici miei; ma per pietà fatemi morir piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato”. Sarà in questa medesima circostanza che gli nascerà nel suo cuore il desiderio di fondare quella che, ufficialmente costituita l’8 giugno 1856, sarà La Compagnia dell’Immacolata Concezione.
Domenico è allegro, amico fidato di tutti, specialmente di chi è in difficoltà; assiduo e costante negli impegni di studio. A Camillo Gavio, di Tortona, uno dei suoi migliori amici, confida: “Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri. Noi procureremo soltanto di evitare il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentare le cose di pietà. Comincia fin d’oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, serviamo il Signore in santa allegria”. Una gioia che è espressione di una vita vissuta in profonda e intima amicizia con Gesù e Maria, segno dell’azione rinnovatrice dello Spirito e di una santità gioiosa e contagiosa, che forma giovani apostoli capaci di attirare le anime a Dio. In questi mesi si lega in amicizia spirituale anche con Giovanni Massaglia: “Avevano ambedue la stessa volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, con vero desiderio di farsi santi”. Tale patto li aiuta a raggiungere grandi vette di vita cristiana, attraverso la condivisione delle esperienze spirituali e apostoliche, la pratica della correzione, l’obbedienza ai superiori. “Voglio che noi siamo veri amici”, aveva chiesto Domenico a Giovanni. E realmente furono “veri amici per le cose dell’anima”, avviando una scuola di santità giovanile caratterizzata da intensa vita di preghiera, spirito di sacrificio e laboriosità, gioiosa fecondità apostolica. Di Giovanni Massaglia don Bosco testimoniò: “Se volessi scrivere i bei tratti di virtù del giovane Massaglia, dovrei ripetere in gran parte le cose dette del Savio, di cui fu fedele seguace finché visse”.
Nell’oratorio c’erano ragazzi magnifici, ma c’erano anche mezze teppe che si comportavano male e c’erano ragazzi sofferenti, in difficoltà negli studi, presi dalla nostalgia di casa. Ognuno cercava individualmente di aiutarli. Perché i giovani più volenterosi non avrebbero potuto unirsi insieme, in una “società segreta”, per diventare un gruppo compatto di piccoli apostoli nella massa degli altri? Domenico, “guidato adunque dalla solita industriosa sua carità scelse alcuni de’ suoi fidi compagni, e li invitò a unirsi insieme con lui per formare una compagnia detta dell’Immacolata Concezione”. Don Bosco diede il proprio consenso: provassero, stendessero un piccolo regolamento. “Uno di quelli che aiutarono più efficacemente Domenico Savio nella fondazione e nella stesura del regolamento, fu Giuseppe Bongiovanni”. Dai verbali della Compagnia conservati nell’Archivio Salesiano, sappiamo che i componenti, che si radunavano una volta alla settimana, erano una decina: Michele Rua (che fu eletto presidente), Domenico Savio, Giuseppe Bongiovanni (eletto segretario), Celestino Durando, Giovanni Bonetti, Angelo Savio chierico, Giuseppe Rocchietti, Giovanni Turchi, Luigi Marcellino, Giuseppe Reano, Francesco Vaschetti. Mancava Giovanni Cagliero perché, convalescente dopo una grave malattia, viveva nella casa di sua madre. L’articolo conclusivo del regolamento, che fu approvato da tutti, anche da don Bosco, diceva: “Una sincera, filiale, illimitata fiducia in Maria, una tenerezza singolare verso di lei, una devozione costante ci renderanno superiori ad ogni ostacolo, tenaci nelle risoluzioni, rigidi verso di noi, amorevoli col nostro prossimo, ed esatti in tutto”. I soci della Compagnia scelsero di “curare” due categorie di ragazzi, che nel linguaggio segreto dei verbali furono chiamati “clienti”. La prima categoria era formata dagli indisciplinati, quelli che avevano la parolaccia facile e menavano le mani. Ogni socio ne prendeva in consegna uno e gli faceva da “angelo custode” per tutto il tempo necessario. La seconda categoria erano i nuovi arrivati. Li aiutavano a trascorrere in allegria i primi giorni, quando ancora non conoscevano nessuno, non sapevano giocare, parlavano solo il dialetto del loro paese, avevano nostalgia. Nei verbali si vede lo snodarsi di ogni singola riunione: un momento di preghiera, pochi minuti di lettura spirituale, un’esortazione vicendevole a frequentare la Confessione e la Comunione; “parlasi quindi dei clienti affidati. Si esorta la pazienza e la confidenza in Dio per coloro che sembravano interamente sordi e insensibili; la prudenza e la dolcezza verso coloro che promettonsi facili a persuasione”. Confrontando i nomi dei partecipanti alla Compagnia dell’Immacolata con i nomi dei primi “ascritti” alla Pia Società, si ha la commovente impressione che la “Compagnia” fosse la “prova generale” della Congregazione che don Bosco stava per fondare. Essa era il piccolo campo dove germinarono i primi semi della fioritura salesiana. La “Compagnia” divenne il lievito dell’oratorio.
I pochi mesi che Domenico vivrà ancora all’oratorio sono un’ulteriore conferma della sua deliberazione di farsi santo, particolarmente perseguita soprattutto dopo aver sentito una predica di don Bosco sul modo facile di farsi santo. “È volontà di Dio che ci facciamo tutti santi; è assai facile di riuscirvi; un grande premio è preparato in cielo a chi si fa santo”. Per Domenico quella predica fu come una scintilla che gli infiammò il cuore e subito si mise a praticare i consigli datigli da don Bosco: “Per prima cosa una costante e moderata allegria, e consigliandolo a essere perseverante nell’adempimento de’ suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandai che non mancasse di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni”. Chi si accorse della statura morale e spirituale di Domenico fu Mamma Margherita, che un giorno confidò a don Bosco: “Tu hai molti giovani buoni, ma nessuno supera il bel cuore e la bell’anima di Savio Domenico”. E spiegò: “Lo vedo sempre pregare, restando in chiesa anche dopo gli altri; ogni giorno si toglie dalla ricreazione per far visita al SS.mo Sacramento… Sta in chiesa come un angelo che dimori in Paradiso”. Ed è grazie all’amore all’Eucaristia e alla devozione a Maria che questi giovani vivono e condividono un’intensa vita spirituale e mistica, di radicalità evangelica nell’obbedienza alla volontà di Dio, nello spirito di sacrificio, nella fecondità apostolica ed educativa tra i compagni, soprattutto i più difficili o emarginati.
Con don Bosco, Domenico però rimane solo fino al 1° marzo 1857 quando, a causa di una malattia, che si presenta subito molto seria, deve tornare in famiglia, a Mondonio. In pochi giorni, pur tra qualche saltuaria speranza, la situazione precipita e Domenico si aggrava. Muore a Mondonio il 9 marzo 1857, serenamente ed esclamando: “Oh! Che bella cosa io vedo mai…”. La presenza di Maria segna tutta la storia di questo giovane, come Colei che lo accompagna nel realizzare la benedizione del Padre e la sua missione. La Chiesa riconosce la sua santità, pure se giovanissimo. Papa Pio XI lo definì un “piccolo, anzi grande gigante dello spirito”. Egli realizzò la verità del suo nome: Domenico, “del Signore”; e Savio “saggio”: dunque saggio nelle cose del Signore e autorevole per l’esemplarità e la santità della vita.
La sua festa si celebra il 6 Maggio. È patrono delle mamme in attesa, e per sua intercessione si registrano ogni anno un numero sorprendente di grazie. Fu beatificato a Roma il 5 marzo 1950 da Pio XII e canonizzato il 12 giugno 1954 da Pio XII.
Lo stesso giorno nel Martirologio Romano, la Chiesa commemora:
– Santa Francesca, religiosa, che, sposata in giovane età e vissuta per quarant’anni nel matrimonio, fu moglie e madre di specchiata virtù, ammirevole per pietà, umiltà e pazienza. In tempi di difficoltà, distribuì i suoi beni ai poveri, servì i malati e, alla morte del marito, si ritirò tra le oblate che ella stessa aveva riunito a Roma sotto la regola di san Benedetto.
– Presso Sivas nell’antica Armenia, passione dei santi quaranta soldati di Cappadocia, che, compagni non di sangue, ma di fede e di obbedienza alla volontà del Padre celeste, al tempo dell’imperatore Licinio, dopo aver patito il carcere e crudeli torture, durante il rigidissimo inverno furono costretti a rimanere di notte nudi all’aperto su di uno stagno ghiacciato e, spezzate loro le gambe, portarono così a termine il loro martirio.
– A Barcellona nella Spagna settentrionale, san Paciano, vescovo, che, nel predicare la fede, affermava che il suo no- me era cristiano e cattolico il suo cognome.
– Nel territorio di Rapolla in Basilicata, san Vitale da Castronuovo, monaco.
– In Moravia orientale, san Bruno, vescovo di Querfurt e martire, che, mentre accompagnava in Italia l’imperatore Ottone III, affascinato dal carisma di san Romualdo, abbracciò la vita monastica prendendo il nome di Bonifacio e, tornato in Germania e fatto vescovo dal papa Giovanni X, nel corso di una missione apostolica fu trucidato dagli idolatri insieme con altri diciotto compagni.
– A Bologna, santa Caterina, vergine dell’Ordine di Santa Chiara, che, insigne nelle arti liberali, ma ancor più illustre per le virtù mistiche e il cammino di perfezione nella penitenza e nell’umiltà, fu maestra delle sacre vergini.
– Nel villaggio di Nei-Ko-Ri in Corea, santi Pietro Ch’oe Hyong e Giovanni Battista Chon Chang-un, martiri: padri di famiglia, amministrarono il battesimo e stamparono libri cristiani; sottoposti per questo a tortura, persistettero con costanza nella fede a tal punto da suscitare l’ammirazione dei loro persecutori.